CANTIERE ITALIA

autore: 
Gianmarco Cerotto

Di questi tempi non possiamo più permetterci di credere che il centro di uno Stato sia la sua periferia; questo tipo di ragionamento oltremodo nocivo, dettato da una presunzione di democrazia e non certo dalla struttura su cui si fonda la democrazia reale, ci ha portato a vivere una condizione di forzato nichilismo: ogni aspetto della nostra esistenza,sinora, è stato distorto dall’illusione che ogni cittadino potesse essere il centro del proprio destino.

In uno Stato in cui la massa è arrivata al governo le conseguenze disastrose le viviamo e le subiamo tutti; stiamo patendo gli errori della massa amplificati da pochi che hanno assunto il potere portando le storture di un forsennato pluralismo in stanze di potere che dovrebbero mantenere l’imparzialità.


Imparzialità significa decidere per tutti: non ciò che tutti approvano, ma piuttosto ciò che serve al bene comune.


Non sento di dovere spiegazioni a quanti affermerebbero il contrario, a quanti sono ancora convinti che questo ragionamento sia antidemocratico; in realtà,prima fra tutte è la democrazia a chiedere un passo indietro ricordando che la rappresentanza esiste per tutelare il sistema da se stesso.

In un sistema equilibrato il popolo si trova alla base, e ai vertici è data la rappresentanza; le due qualifiche di “base” e “vertice” non possono essere confuse con i concetti ben diversi di “livello basso” e “livello alto”: il popolo non è il livello più basso dello Stato così come la rappresentanza non si configura come l’aspetto più alto della società; semplicemente ci troviamo dinnanzi a due realtà distinte, interconnesse ma comunque capaci di gestirsi attraverso criteri specifici.



Prerogativa del popolo è quella di mantenere al suo interno molteplici contraddizioni; al contrario, i vertici dello Stato devono mantenere quell’imparzialità di cui sopra; chi sale al governo deve non soltanto fare gli interessi di una parte, ma deve semplicemente riuscire a rappresentare lo Stato che è sintesi di tutti gli aspetti riguardanti il popolo.
I rappresentanti dello Stato non devono nulla al popolo se non la coerenza nell’assicurare la stabilità.


Per troppo tempo abbiamo vissuto le campagne elettorali come sistemi che si riferivano ad una parte specifica della società; abbiamo assistito a vane promesse di stabilità, intenti che si sono trasformati in rozzi eventi pubblicitari, un microcosmo di colpi bassi per un potere che concedeva privilegi.



Questi privilegi sono nati dal fatto che le contraddizioni del popolo sono entrate a far parte dell’universo della rappresentanza politica.
Dalle basi teoriche del pensiero politico di John Locke (filosofo britannico, 1632-1704) riscontriamo che allo “Stato di Natura” gli uomini posseggono tutti i presupposti sociali per vivere l’armonia politica ma, in questa condizione primaria, non vi sono bastevoli rassicurazioni rispetto al fatto che tutti onoreranno i criteri che mantengono stabile un sistema; la rappresentanza politica, il passaggio dallo “Stato di Natura” alla dimensione sociale formalizzata, è lo scarto che divide l’uomo insicuro da quanti, attraverso la maggioranza del popolo, scelgono, per lo Stato di tutti, un governo per ogni parte della società.


Oggi, al contrario,questa “maggioranza” ha assunto in prima persona il potere e, non rappresentando certo la totalità della vita sociale,per questo ha portato aspetti di opposizioni nelle strutture istituzionali.

Le strutture istituzionali nascono per smussare gli angoli che si formano nella“Piazza”;portare gli spigoli in questa dimensione significa perdere buona parte dell’utilità politica della rappresentanza; ai politici è stato affidato il potere non per aumentare il proprio prestigio e la personale influenza ma per governare.

Gli uomini necessitano di un governo formalizzato per vivere l’armonia sociale ma, come è ormai chiaro, non ci si può lamentare del fatto che la politica si tramuta in“Casta” se gli aspetti che fondano il piano istituzionale vengono traditi: è impossibile pretendere l’imparzialità se le conflittualità entrano a far parte dei vertici dello Stato.

L’aspetto centrale del discorso è che ogni realtà necessita di una particolare competenza e sovvertire quest’ordine naturale aumenta i rischi del collasso; vivere questo collasso ci sta a poco a poco consumando tanto che siamo portati a confondere l’anarchia con la democrazia.


Ognuno mette in discussione l’autorevolezza del potere costituito solo perché sisente al centro di un discorso che desidera convergere sulla sola autorità personale.


Questa situazione è inaccettabile e, forse, solo ora lo stiamo capendo; a causa di un male moderno che colpisce in particolare i cittadini che si definiscono impegnati, socialmente attivi, abbiamo dovuto assistere all’espansione di questo dannoso sistema; secondo questi bastava legarsi ad una fazione per considerarsi utili allo Stato ma, piuttosto, hanno alimentato l’apatia e consolidato la faziosità che altro non è se non la formula conclusiva di un impoverimento dialettico.

Qualcosa, comunque, sta cambiando: siamo all’alba di un modo migliore di concepire il governo.
Dopo anni d’immobilismo l’Italia si è resa conto che la partitocrazia la stava affossando, la crisi economica ha avuto il “merito” di mettere in risalto i limiti della repubblica.

Bisogna soffermarsi su un particolare di grande interesse: scegliere di far emergere un individuo al di fuori dei partiti con caratteristiche di prestigio e indubbia morale personale significa mettere in risalto che il governo non può essere portato avanti dalla massa indistinta e dai suoi rappresentanti ma piuttosto da persone competenti e “super partes”.

Questa repubblica ha creato un vastissimo fenomeno di “caccia alla poltrona”; il passaggio ad un governo tecnico elimina il presupposto fondamentale della “caccia” vale a dire lo spostamento dei politici motivato dalla convenienza e orientato dove pende la maggioranza.


Il governo tecnico, sotto questo profilo,darà luogo a forze politiche che non saranno antagoniste in senso stretto ma, piuttosto, alternative future non appena la ricostruzione, che passa da nuove regole nella politica e nel costume, sarà portata a compimento.


Se questo non fosse un articolo ma un trattato antropologico non faticheremmo nell’affermare che esiste una profonda distanza tra Mario Monti (il nome scelto per imbastire alsuo fianco l’esecutivo tecnico) e gli esponenti che hanno costituito il quadro della politica moderna; costui fa parte di una classe differente, di una “razza umana” a tal punto differente che ci si chiede fin dove la goliardia abbia spinto i politici.

È giusto sottolineare che numerosi di questi hanno perso ogni tipo di contatto con la realtà e con l’intelligenza: Monti non è altro che l’incarnazione di questo distacco, in quest’uomo abbiamo un valido modello che ci rende possibile affermare che molti politici italiani non sono più “esseri umani razionali”: basti pensare al diverso approccio che avrebbero avuto se si fossero trovati nella posizione di Monti: avrebbero rincorso le telecamere alimentando la macchina delle vendite e della pubblicità.



Monti, invece, si tiene ai margini, un profilo basso ma di sicura risolutezza; non si concede all’occhio vigile dei teleobiettivi ricordando, in un composto silenzio (rotto da poche pacate battute cortesi), che i “Media” non sono l’anima della politica … forse neppure il corpo.
Austerità, compostezza, sguardo placido e sicuro;
dall’alto della sua esperienza umana porta le persone ad una riflessione doverosa: ma in tanti anni di mala politica com’è possibile che il sistema ci abbia ridotto
a scegliere sempre gli stessi inetti?



A questo proposito è giusto scrivere che “non c’è cosa che consumi se stessa quanto la liberalità” (Machiavelli, “Il Principe”); questo sistema ha consumato se stesso, ha costretto la cittadinanza a vivere il continuo paradosso di una consuetudine politica votata al furto “pertanto è più sapiente tenersi el nome del misero, che partorisce una infamia senza odio, che, per volere nel nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome del rapace, che partorisce una infamia con odio” (Machiavelli, “Il Principe”).

Vari politici italiani hanno portato la dialettica su un piano personale (non istituzionale) e, come sempre accade, ciò li ha condotti ad avere a cuore i propri interessi piuttosto che il bene del Paese; ciò avviene a chi, per sua ottusa volontà, preferisce operare la liberalità tramutandosi, conseguentemente, in rapace ed in nome di questa liberalità vessare e condurre il popolo all’odio.

La dialettica di Monti non è ridondante e per questo va diritta al punto, manda un messaggio preciso: se deve assumersi questa responsabilità non può accettare che il programma e la struttura di governo gli siano imposti dai partiti; la sua idea di governo è quella di un corpo di ministri tecnici con i politici ai margini della vita attiva.

Monti si appella all’articolo 92 della Costituzione ed è pronto a scegliere in piena autonomia, in accordo solo con il capo dello Stato, i suoi ministri seguendo il “modello Dini” del 1995 con un governo del Presidente e i ministeri occupati da persone competenti.

Il “berlusconismo” è stata un’esperienza aspra, dura ed incerta ma piuttosto che essere il problema è stato soltanto un sintomo di mancanze strutturali, mancanze portate all’estremo.

In questo momento il Paese è chiamato ad esercitare una “saggezza”politica che, in altre circostanze, non ha visto la luce;la “saggezza” è la capacità dell’individuo di uscire da uno stato di guerra perpetua affidandosi ad un uomo o assemblea che incarna i poteri di tutti.

Questa scelta (ciò deve essere capito da quanti, troppo attaccati ai privilegi personali, sentono di non voler appoggiare il “governo Monti”) è dettata dalla convenienza: l’uomo è strutturalmente portato a prediligere i propri interessi ma il saggio sa che i conflitti insanabili portano non solo ad un danno per la collettività ma anche per la propria individualità.

Questo è il momento di riscoprirsi “esseri razionali” ed abbandonare i giochi da imprenditori delle proprie personali finanze e poteri (acquisiti da molti, nel tempo, con truffa e molteplici menzogne).

“Prima che i nomi di giusto e ingiusto possano aver luogo ci deve essere qualche potere restrittivo per costringere gli uomini all’adempimento delle loro responsabilità cosicché la natura della giustizia consiste nel mantenimento di tali responsabilità ma la loro validità è vincolata alla costituzione di un potere civile sufficiente a costringere gli uomini a mantenere tali responsabilità” (Hobbes, “Leviatano”).

Questo è di certo il momento di costituire tale potere civile ma, nonostante la “saggezza” sia, di certo, un requisito importante per la vita politica, dobbiamo ricordarci che questi anni ci hanno fornito un quadro ben diverso, ben più paradossale della semplice linearità di un “pensiero scientifico”; i limiti strutturali della “democrazia pigra”non sono morti con il “berlusconismo”.

Il“principe nuovo”è colui che prende e riesce a mantenere il potere: questi è chiamato“ad aggirare con l’astuzia e’ cervelli delli uomini” (Machiavelli, “Il Principe”), a combattere secondo due tipologie d’azione: una propria dell’uomo, le leggi, e l’altra propria delle bestie,la forza “ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo:
pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo.

Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e uno mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una senza l’altra non è durabile” (Machiavelli“Il Principe”).

È importante mantenere salda questa soluzione di governo; è necessario trovare una giusta soluzione per ogni aspetto controverso del nostro sistema; il governo Monti rappresenta il primo tassello di una riforma strutturale ma in quanto alla base di tale processo di risanamento, la sua riuscita, la sua durata e l’efficacia condizioneranno le future scelte e il tipo di strada che il Paese intraprenderà.

I partiti rappresenteranno una forza disturbatrice, ciò è indubbio, ed è per questo che bisognerà essere solidi, riconoscendo che il bene comune deve essere preservato anche a costo di esercitare una giusta dose di vigore e, nel momento opportuno, essere risoluti arginando le intraprendenze di esponenti di spicco.

In questo momento storico chi sale al potere nel ruolo di riformatore deve esercitare le virtù politiche della prudenza:sapersi adattare alle circostanze, avere l’accortezza nel comprendere i tempi e la capacità di saper riconoscere persone che potranno essere fidate e utili; senza cedere alle lusinghe della politica che, soprattutto dalla parte del “centrodestra” cercherà di portare alla riconferma ministri del proprio mandato uscente.

Per quanto riguarda i leaders apertamente in contrasto con il “governo Monti”, di questi, forse, è inutile parlare:la loro presunzione li qualifica, li inquadra come “capi dei propri partiti” piuttosto che persone coscienti delle urgenti problematiche e, quindi, capaci di mettere da parte il proprio per l’altrui benessere.

In questo frangente sarebbe doveroso pensare al benessere del Paese, al contrario Di Pietro, Vendola e Bossi sembrano vivere in un Paese diverso; se ci riferiamo al solo Bossi, in effetti, questi non ha mai nascosto il suo disprezzo per tutto ciò che è nazionale ed inoltre uscire dalla maggioranza lo mette ella difficile situazione di dove rincollare i pezzi del suo partito ed in particolare cercare di mantenere la credibilità agli occhi dell’elettorato che, in poco tempo, dai discorsi sulla “secessione” sono passati a dover subire uno scenario ben diverso in cui nessuna delle riforme del “Carroccio” è andata in porto e nessuna mai potrà essere presa in considerazione.

Per quanto riguarda Di Pietro,le accuse mosse contro quest’ultimo di essere più “populista” di chi aspramente criticava ormai hanno un riscontro: anche nel suo modo di esprimersi ricorda il leader tanto “odiato”; basti pensare che, ironicamente, riferendosi al governo di “larghe intese” lo definisce un “matrimonio tra uomini”.

Questa sua esternazione vuole forse ricordare che non è poi così“ candido” o meno “omofobo” dei leghisti oppure è semplicemente un modo di essere che ricorda molto da vicino le gaffe di Berlusconi.


Vendola chiude questo terzetto: il leader di “Sel” dimostra di aver perso lucidità affermando che basterebbero poche settimane per riformare la “struttura delle ricchezze”.
Il paragone con Monti è impietoso: mentre il primo riconosce la gravità della situazione ed è pronto ad assumersi le responsabilità di risanare strutturalmente l’Italia, il secondo, senza neppure accennare all’urgenza di modificare la legge elettorale (motivo principale delle problematiche e contraddizioni tutte italiane), sarebbe disposto ad andare al voto.

In conclusione le parole di Monti, misurate e puntuali, riguardo al fatto che bisogna abolire i privilegi e il suo riconoscere che v’è un lavoro enorme da fare rassicurano sul fatto che, dopo troppo tempo trascorso,siamo in mani certamente degne di fiducia.

Questa è, perlomeno, ciò che ci auguriamo tutti.

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