CINA

autore: 
Roberto Vittucci Righini

IL GRANDE PAESE ORIENTALE CONTRIBUISCE ALLA CRISI

Agli inizi della Comunità europea si disse che l’Italia, produttrice sovrabbondante rispetto alle esigenze nazionali di riso, sarebbe stata agevolata dalle esportazioni che ne avrebbe effettuato in via privilegiata nell’ambito comunitario.

In realtà si scoprì poi che i nostri magazzini rimanevano
colmi di riso non venduto, in quanto industriali italiani acquistavano riso di minor qualità ma di ben minor prezzo rispetto a quello prodotto nel nostro Paese, facendolo transitare in Italia e vendendolo alle altre Nazioni della comunità quale riso italiano.

La Comunità europea in seguito si allargò e la botta maggiore alla nostra agricoltura la diedero l’ingresso della Spagna e di altre Nazioni nelle quali il minor costo del lavoro, delle sementi, dei concimi e via dicendo, resero troppo cari e, quindi, invendibili all’estero, gran parte dei nostri prodotti destinati
all’alimentazione.

Miglior sorte non toccò al latte italiano che non venne
protetto dai nostri Ministri dell’agricoltura i quali accettarono che nell’ambito della sovrabbondante produzione di latte della comunità venisse riservata all’Italia una quota ben inferiore a quelle che si verificarono poi essere le nostre necessità nazionali; il
risultato, a tutti noto, è stato di aver caricato le nostre stalle di multe pesanti al limite dell’intollerabilità, per sforamento delle quote assegnateci, per la gioia dei produttori di latte olandesi, tedeschi, ecc., che, invece, la sovrapproduzione di latte possono esportare anche da noi.

E’ così stata massacrata la nostra agricoltura, e basta in proposito osservare i tutt’altro che remunerativi prezzi all’origine (e cioè presso il coltivatore) di grano, mais, riso, ecc., per non parlare di quelli della frutta e della verdura, che si gonfiano soltanto per il beneficio ed il benessere di intermediari, grossisti, dettaglianti e affaristi in genere.

Gli industriali italiani ebbero poi la “geniale” pensata di “alleggerire” i costi in Italia - oberati, al solito, da quelli della manodopera e relativi contributi, dell’elettricità, della nafta e di quant’altro indispensabile alla produzione – facendo produrre ed importando dall’estero ed in particolare dalla Cina, dove decine di milioni di poveracci erano disposti a lavorare per un tozzo di pane, consentendo così importazioni a basso costo e lucrosi affari.

Due furono le correnti di pensiero degli industriali all’epoca: alcuni fecero seguire le produzioni all’estero da proprio personale inviato sul luogo, che controllava l’esatta adozione della tecnologia costruttiva italiana e l’impiego di materiali idonei, ottenendo così prodotti del tutto simili nella qualità a quelli fabbricati in Italia, mentre altri si limitarono a chiedere ed importare prodotti simili solo nell’aspetto esteriore a quelli fabbricati in Italia, con semplice apposizione dei marchi e delle scritte italiani.

Le merci così importate non vennero nel primo caso riconosciute dagli acquirenti finali come prodotte all’estero, tanto più che buona parte delle importazioni venivano dotate di false scritte “Made in Italy”, senza ulteriori danni se non quelli derivanti dall’aver sottratto lavoro alle maestranze italiane, contribuendo ad incentivare la disoccupazione; nel secondo caso, invece, ai danni di cui sopra si aggiunse la perdita di competitività delle merci così importate e vendute falsamente come se prodotte in Italia, nei confronti di merce prodotta da altre Nazioni, di qualità superiore, merce estera che man mano venne privilegiata dai consumatori.

Come se non bastasse, le società cinesi o comunque dell’area orientale, alle quali si rivolgevano gli importatori italiani, non limitavano la quantità di merce
caratterizzata dai marchi italiani, a quella ordinata dal nostro Paese, per cui prodotti altamente scadenti non italiani ma contrassegnati da marchi italiani sono stati dai produttori venduti sui mercati internazionali, principalmente in altre Nazioni europee, nelle Americhe ed in Africa, svilendo nel pensiero dei consumatori finali le merci italiane nella loro generalità.

Che non si tratti di fantasie è testimone l’autore di
questo articolo il quale, da Avvocato, ebbe ad occuparsi
di notevoli quantità di merce fermata dalla Guardia di Finanza in vagoni ferroviari nella Stazione di Torino in quanto, importata dalla Cina, presentava su tutti i singoli prodotti la scritta “Made in Italy” e dovette inoltre occuparsi, sempre quale legale, di merce caratterizzata da marchio italiano direttamente e fraudolentemente venduta in Belgio ed Olanda da fabbriche
dell’Oriente che l’avevano precedentemente prodotta dietro incarico di industriali italiani.

Inoltre alcuni dirigenti di Società italiane, collocati in pensione, costituirono una associazione diretta ad insegnare gratuitamente in Cina talune tecniche italiane di produzione, prontamente adottate.

A quanto sopra si aggiungono gli apprezzamenti fatti dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della repubblica italiana, nel corso di recenti viaggi, alle importazioni in Italia dalla Cina, ed il quadro è completo.

Dopo aver speculato per anni su merce fatta produrre in Cina su licenza italiana, finalmente gli industriali nostrani hanno aperto gli occhi e si sono accorti che il basso costo di fabbricazione e così di vendita di molti prodotti cinesi, molte volte caratterizzati da falsi marchi italiani e di altre Nazioni in particolare occidentali, stanno mettendo in ginocchio numerose nostre industrie per cui, oltre tutto tardivamente, si cercano rimedi legislativi che al momento non si sa quanto potranno essere utili.

E’ giusto e doveroso cercare di tutelare con leggi i nostri prodotti, il lavoro e le maestranze italiane, ma non sarebbe altrettanto giusto prendersela e farla pagare a quegli industriali italiani che, traendone guadagni, sono stati una delle cause, se non la principale, di quanto sta accadendo?

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