VITTORIO EMANUELE III E LA SVOLTA DI GIOLITTI

autore: 
Aldo A. Mola

Cent’anni or sono alla presidenza del Consiglio dei Ministri ascese il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, antico esponente della “sinistra storica” e poi della “pentarchia”, ovvero del gruppo di democratici decisi a conferire veste giuridico- istituzionale ai mutamenti ingenerati dall’unificazione nazionale. Al suo fianco, in veste di ministro degli Interni, tornò al governo il subalpino Giovanni Giolitti, già presidente del Consiglio nel 1892-1893.

Fu una vera e propria svolta: ed è questo il termine chiave utilizzato dagli Atti del convegno che al riguardo venne organizzato a Cuneo e Dronero (AA.VV., La svolta di Giolitti. Dalla reazione di fine Ottocento al culmine dell’età liberale, Ed. Bastogi, Foggia, tel. 0881/72.50.70, fax. 0881/72.81.19, pp. 312, edito nella collana del Centro Studi “G. Giolitti” per lo studio dello Stato, con sede a Dronero).

Si possono individuare diverse cause per spiegare la freddezza della memoria storiografica nei confronti di Giolitti: cinque volte capo del governo fra il 1892 e il 1921 e il cui malevolo “ritratto”, tracciato da Gaetano Salvemini che lo bollò quale “ministro della mala vita” per l’impiego di metodi spregiudicati al fine di vincere le elezioni, è stato recentemente riproposto da Bollati-Boringhieri.

La ragione fondamentale è però questa.

La storiografia “accademica” oggi prevalente preferisce continuare a ricordare Novara, Lissa, Custoza, Adua, Caporetto, l’8 settembre …, insomma tutto ciò che in qualche modo sa di sconfitta, di mortificazione, di drammatica crisi. In tal modo viene resa sempre più plumbea l’immagine dell’Italia postunitaria, tenuta insieme secondo la polemistica catto-comunista, neoborbonica e cosiddetta “leghista” con la repressione dei moti popolari, suscitati dalla miseria, dalla fame, dall’anelito di libertà, giustizia sociale e altri elementari bisogni nei cui confronti - secondo costoro - le istituzioni (Corona anzitutto) sarebbero state sempre sorde e cinicamente indifferenti.

La verità dei fatti è però tutt’altra. E lo evidenziano bene i saggi raccolti in questo volume, dovuti a specialisti di chiara fama: Cosimo Ceccuti, Raffaele Colapietra, Silvio Furlani, Giovanni Orsina, Antonio Piromalli, Romain H. Rainero, Claudio Spironelli, Francesco Tamburini, Valerio Zanone, Lea C. Antonioletti, Marco Severini, il senatore Giuseppe Fassino e il generale Oreste Bovio. In sintesi, asceso al trono dopo il regicidio di Monza del 29 luglio 1900 Re Vittorio Emanuele III non tardò ad aprire il suo animo al meglio dell’antica di-rigenza liberale (Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Carmine Senise …): massima libertà per tutti ma “chi rompe paga”. Sorto dalla convergenza tra Corona, partito dello Stato (Cavour) e partecipazione popolare (Garibaldi, che vestì la divisa di generale del Re), il Regno d’Italia avrebbe continuato a camminare sulla via del progresso civile.

Dopo pochi mesi di regno, congedato l’ottuagenario presidente del Consiglio (e del Senato), Giuseppe Saracco, il trentunenne Vittorio Emanuele III affidò le sorti dell’Italia a Giolitti e a Zanardelli. Sulla fine del 1901 venne varata una riforma d’importanza generale, solitamente dimenticata dalla manualistica: la determinazione degli oggetti da trattare in Consiglio dei ministri: trattati, le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione, la nomina alle alte cariche. Infine, il presidente del Consiglio assunse veste di “capo del governo”, giacchè il ministro degli Esteri avrebbe dovuto sottoporre a lui tutte le note impegnanti la politica del governo.

Fu una vera e propria riforma statutaria, resa possibile grazie alla flessibilità della Carta albertina: duttile e adattabile alle esigenze dei tempi nuovi. Seguirono anni di rapido progresso in ogni settore (economia, istruzione, “società civile”…) e il prestigio dell’Italia crebbe nell’opinione internazionale. Tali mutamenti - profetizzati dal sociologo russo Giacomo Novicow in La missione dell’Italia, ora disponibile in edizione anastatica per i tipi della Forni di Sala Bolognese - furono dovuti anzitutto alla personale determinazione del Re, sicchè si dovrebbe parlare di “età emanuelina” molto più che di età giolittiana.

Il volume sulla Svolta di Giolitti fa parte del progetto di lavoro del Centro di Dronero, che terrà in settembre la terza Scuola Estiva di Alta Formazione su L’unificazione nazionale: bilancio critico. Un ciclo di lezioni, questo, che si concluderà con una tavola rotonda sulla figura e l’opera di Giolitti.

Aperto a tutti, il corso prevede l’erogazione di dieci borse di studio a favore di neo-laureati e dottorandi (300.000 lire per i residenti in Piemonte, 600.000 per gli altri). E’ poi in programma la duplicazione di tutte le carte giolittiane disperse in vari archivi pubblici e privati, sì da arrivare preparati al centenario del ritorno dello statista alla guida del governo (1903-1905): quando, come si ricorderà, la carta moneta giunse a far aggio su quella aurea e il governo potè varare la conversione della rendita, riducendo nettamente gli oneri per l’erario.

Fu un periodo operoso e propizio. Esso va ricordato a beneficio di tanti “accademici” smemorati, i quali sogliono parlare dell’Italia postunitaria tacendo ch’essa nacque e durò come Regno. Ma poi venne la repubblica e, con essa, il declino.

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