IL CONCETTO DI PATRIA NEL GIAPPONE ANTICO

autore: 
Franco Bigatti

Esistono, nella vita degli uomini in quanto individui, taluni elementi che lo storico ritrova nelle varie fasi della vita dell’umanità, anche se in talune circostanze, in taluni contesti culturali, sono fatti oggetto di contestazione come si ama dire oggi, di irridente negazione sarebbe meglio precisare.

Tra questi fattori costanti nella coscienza sociale, uno ce n’é al quale vanno irridendo in particolare, oggi-giorno, i negatori dei valori consacrati da una tradizione che si estende nel tempo e nello spazio annullando ogni delimitazione convenzionale. Ed è quel sentimento che è noto sotto il nome di patriottismo.

Per noi occidentali, europei in particolare, patriottismo significa consapevolezza del legame, spirituale prima e più ancora che biologico, che ci lega alle generazioni del passato stanziate nella Patria, nella terra dei nostri patres; un legame che dunque riunisce in sè il binomio di storia e di geografia, e di evoluzione e di contemporaneità: per dirla in parole difficili ma scientificamente esatte, di diacronia e di sincronia.

Patriottismo significa piena avvertenza che come le piante affondano le radici in un terreno ben preciso, così noi uomini siamo radicati in una terra nella quale ci hanno preceduto i nostri padri, i nostri maggiori, e nella quale vivranno i nostri posteri quando noi non saremo più.

Una terra che pure ben ci guarderemmo dal fissare con i paraocchi, limitatori illogici della vista. Il glorioso retaggio che ci deriva dalla civiltà greco-romana si fonda precisamente sul senso di solidarietà tra i membri d’una stessa polis contrapposto all’egoismo personale, familiare o di casta, dilatato anzi, con gradualità sapiente, fino a inglobare i popoli dell’Impero con Roma caput mundi.

E quando, con la decadenza del senso morale e patriottico nell’Impero Romano, tutto lasciava credere che le cosiddette invasioni barbariche dovessero fare tabula rasa di tante conquiste ideali e spirituali, ecco il Cristianesimo riproporre un messaggio che, se fossestato accettato e conservato nella sua intima purezza, avrebbe trattenuto uomini e popoli dal precipitare nei due errori con-trapposti dell’egoismo particolaristico e d’un cosmopolitismo che, intenzionato ad abbracciare tutta l’umanità, fatalmente conclude col non abbracciare più nessuno fuori della propria cricca.

Interessante dal duplice punto di vista della formazione civile e culturale può essere dunque il considerare il senso patriottico quale lo intendono popoli dalla civiltà estranea alla tradizione civile greco-romana rimodellata dall’universalismo morale ebraico-cristiano.

Perchè proprio questo vogliamo esaminare: il concetto di Patria nella storia antica d’un popolo come quello giapponese, pervenuto da poco più d’un secolo a un incontro con l’Occidente fondato sul confronto tra i valori dello spirito e non soltanto mosso da necessità od esigenze mercantilistiche.

Quando si parla di patriottismo nipponico, il pensiero corre spontaneo ai samurai dal carattere aristocraticamente religioso, ed ancor più ai kamikaze della guerra russo-giapponese e del secondo conflitto mondiale. Dirò subito che questi uomini, protagonisti della storia giapponese tardo-medievale e contemporanea, non ricorreranno nel presente discorso che, come precisa il titolo, verterà sul Giappone antico. E’ noto che in Giappone erano confluite correnti migratorie dal continente asiatico ed in specie dalle altre isole dell’oceano Pacifico. E questi immigrati si erano gradatamente fusi tra loro e con gli Ainu e le altre popolazioni autoctone dell’arcipelago giapponese.

Quindi, le tradizioni ancestrali erano fortemente diversificate. Nel VII secolo d.C. sorsero delle contese tra le grandi casate incaricate di talune mansioni a Corte e di servizi liturgici connessi con quelle. Dirimere controversie del genere non sarebbe stato facile. Le interconnessioni tra religione e vita sociale, tra ritualismo e privilegi di classe e di famiglia, avevano ingenerato una tensione tale, per cui l’unica soluzione razionale, scientificamente valida, era quella che oggi diremmo l’analisi critica, il controllo attento, di tutte le fonti della tradizione familiare e sociale delle varie etnie.

L’Imperatore, Tenmu Tenno, pienamente avvertito dell’importanza del problema, assunse proprio questa decisione, a un tempo illuminata e coraggiosa; far controllare tutte le fonti archivistiche pubbliche e private, per poi coordinare le risultanze in un testo fondamentale. Alle molte difficoltà insite in un’impresa del genere si aggiunse tutto un concorrere di circostanze avverse.

La storia dell’operazione voluta dal Sovrano è ricca di particolari che mostrano quanta tenacia e quanto spirito di iniziativa siano stati necessari. Tenmu Tenno non visse abbastanza da vedere realizzato il suo piano; ma nel 711 il nobile Oo no Yasumaro presentava all’Imperatrice, Genmyo Tenno, un libro che reca il titolo di Kojiki, “Memorie degli antichi eventi”.

E’ tradizione consolidata nell’antichità il presentare la storia etnica o nazionale facendo muovere la narrazione dalle origini del mondo. Così hanno fatto la Bibbia e la storiografia greca e romana, così usavano ancora storiografi nostri fino al Rinascimento. Yasumaro dunque non fa nulla di strano o di bizzarro iniziando il suo discorso dal momento in cui il cielo e la terra erano ancora un’entità indistinta: tanto più che il suo è un libro “ a tesi”, vale a dire, scritto con lo scopo di dimostrare una teoria ben precisa.

Ma facciamo un lungo passo indietro. Senza dubbio, tremendo dev’essere stato il compito di coloro che in tempi antichissimi, e poi ancora per secoli e millenni, hanno dovuto esporre concetti per loro natura complessi, a una gente che non riusciva a spingersi oltre il concreto immediato. I dotti che per primi ebbero una percezione più vasta e chiara della sintesi di valori e di credenze che noi chiamiamo la cosmogonia nipponica, dovendo parlare delle origini del mondo in genere, del Giappone in particolare, ricorsero al metodo di narrare per simboli, in modo allegorico come si suol dire. Cominciarono con il raccontare - e Yasumaro raccolse in riassunto questi miti nel suo Kojiki -che un tempo c’era il caos: il mondo era una materia informe: il secondo grande libro giapponese, il Nihon Shoki (o Nihongi, “gli Annali del Giappone”) dice addirittura: era un qualcosa simile a un uovo. Poi cominciò a operarsi una separazione.

Non si dice nè ad opera di chi, nè il perchè; ma l’elemento superiore e quello inferiore presero a distinguersi. Mantennero però un legame chiamato Kuni no Tokota-chi perchè fa pensare a un germoglio di canna di bambù. Il senso è chiaro: tra tutto ciò che appartiene all’universo intercorrono delle relazioni costanti che non sempre sono appariscenti, che talvolta addirittura non si affacciano ai sensi ed allo stesso pensiero.

Nel Takama no Ha-ra, “la Distesa dell’Ampio Cielo”, avvertita in senso non prettamente materiale e geografico, ecco manifestarsi la triade primordiale formata da Ame no Minaka Nushi, “il Signore dell’Augusto Cielo”, con i suoi due subordinati, Taka-mi Musubi, “l’Alto Augusto Generatore”, e Kami Musubi, “il Divino Generatore”.

Questa triade, che a un certo momento e per cause a noi ignote non verrà più menzionata, appartiene bensì a quella che Bhikkhu Bhante definisce la sfera sovraceleste mitico- misteriosa inaccessibile, ma non è avulsa nè dal mondo delle energie infracelesti inframondane, nè da quello degli esseri intra-mondani.

Un filosofo occidentale direbbe che essa esprime l’Essere, l’Assoluto, il principio vitale che opera nell’universo fino a confondersi con l’universo medesimo e con l’intera gamma delle sue componenti animate e inanimate. Apparve quindi il Tenjin Shichidai, il complesso delle “Sette Generazioni di Kami”, ossia di quegli spiriti superiori che con tanta frettolosità e disinvoltura in occidente vengono considerati delle divinità nel senso ebraico-cristiano del termine. L’ultima generazione è formata da Izana-gi, “Colui che invita”, e da sua sorella-moglie Izana- mi, “Colei che è invitata”, i quali racchiudono in sè il Tutto impersonando il duplice principio vitale che nella filosofia orientale si esprime sotto il noto simbolo della Yang-Yin (che i giapponesi chiamano Yoin).

La coppia è la protagonista d’un episodio nel quale il fantastico della narrazione lascia intravedere il disegno di fondare il sentimento patriottico attraverso il rafforzamento della coscienza nazionale. Le entità superiori offrono a Izanagi e Izanami una lancia preziosa che, immersa nell’acqua salmastra sottostante il “Ponte fluttuante nel Cielo”, lascia cadere delle gocce che si coagulano fino a costituire la prima isola giapponese, Onogoro. Dal normale amplesso simbolico di Izanagi e Izanami hanno poi origine altre isole, con gli elementi loro connessi, così come nascono altri Kami. Da Izanagi discende Tsukiyomi, il nume della Luna, il signore celeste al quale è stato dato il regno della notte.

Discendono altresì Amaterasu Oomikami, la divinità femminile che illumina il cielo e si identifica col sole, e Takehaya Susanoo, il nume impetuoso dalla malvagità proverbiale. A Nini-gi no Mikoto, figlio di suo figlio, Amaterasu ordinò di scendere su una porzione della terra a prenderne possesso portando con sè il Sanshu Jingi (o Mikusa no Kandara), il triplice simbolo della regalità costituito da uno specchio, una lancia e un gioiello che tuttora vengono consegnati al novello Imperatore all’atto della sua investitura.

Ninigi è infatti il bisnonno di Waka Mikenu, meglio noto come Jinmu Tenno: primo imperatore “storico”, incoronato nel 660 a.C. e capostipite di Tenno Heika, S.M. l’Imperatore Akihito. La terra assegnata a Ninigi, il “divino Principe”, è il Toyo Ashihara no Mizuho no Kumi, “il Paese lussureggiante dei culmi delle fresche spighe di riso”, un nome poetico per designare l’arcipelago nipponico. Ma un altro vocabolo ricorre costantemente: naka, che significa “centro, mezzo, interno”.

Potrebbe intendersi in senso puramente topologico, spaziale; eppure la cultura estremo- orientale gli attribuisce un valore anche temporale, anticipando la legge, oggi richiamata con insistenza significativa dalla filosofia e dalla scienza, dell’interconnessione inscindibile delle due categorie del tempo e dello spazio, le componenti generali e necessarie dell’esistenza dell’universo. Ne è derivato il vocabolo Nakatsukuni che indica la terra dei propri numi ed antenati e della propria nascita, la “Patria” nel senso più augusto del termine, un “Paese di Mezzo” fatto così, diremmo, il centro dell’universo.

Che cosa abbiano voluto dire i pensatori dell’antichità è chiaro. L’arcipelago giapponese è un ambiente nato nel contesto d’un disegno voluto e attuato da una volontà superiore, quindi l’aspetto geografico non è l’unica sua connotazione, e nemmeno la più importante. C’è un fattore ben più degno di attenzione. L’arcipelago è un “paese”, un focolare, una home, per dirla all’inglese. Ha ospitato il popolo dei tempi antichi, vi si sono av-vicendate le generazioni, sarà la dimora dei posteri.

Va dunque riguardato con rispetto affettuoso, quale dono del Cielo antico e perenne. Ecco il senso patriottico giapponese: esso nasce da un caldo afflato emozionale, da un sentimento nel quale spiritualità e poesia s’incontrano e si danno la mano. I nobili giapponesi coinvolti nella polemica che abbiamo menzionato vantavano origini remote, si pretendevano i discendenti dei Kami. I miti cosmogonici del Kojiki e del Nihon Shoki precisano che l’Imperatore, qualificandosi come discendente diretto di Ninigi attraverso Jinmu Tenno, si inserisce nella stirpe che attraverso Amaterasu Oo-mikami e Izanagi si ricollega ad Ame no Minaka Nushi, quindi alle origini del mondo, e alla quale è riservata la missione storica di conservare e perpetuare la civiltà dell’Impero del Sol Levante. L’essere stirpe di Kami è senza dubbio un titolo d’onore; ma esso non va, di per sè, sopravvalutato.

Come abbiamo detto, i Kami sono degli esseri per lo più spirituali o umani, dotati ciascuno d’una sola fisionomia, partecipi tutti della vita universale di ieri, di oggi, di domani, di sempre. Il sommo filosofo greco Aristotele direbbe che i Kami sono in atto quello che ciascuno di noi è in potenza: hanno conseguito la pienezza dell’integrazione cosmica alla quale ciascuno di noi viventi può pervenire in ragione della propria natura.

Nel pantheon dei Kami c’è un posto per ogni uomo di buona volontà. E’ logico, tuttavia, che nel grande quadro che tutto abbraccia l’universo, una posizione di rilievo occupino, col Giappone, l’Imperatore e la sua famiglia passata, presente e futura, intesa in senso non soltanto biologico, ma storico e spi ri tual e. I l ruolo del Giappone, e dell’Imperatore che ne è l’incarnazione e l’immagine concreta, si esprime nella duplice categoria del tempo e dello spazio. I miti cosmogonici cui si richiama Yasumaro lo evidenziano con precisione.

Ma mentre cercano di narrare e spiegare in termini popolari fatti veri di difficile comprensione, affidando alla fantasia ed alla creatività di uomini singoli e delle generazioni il compito di elaborarli e tramandarli, cercano pure, forse più ancora, di svolgere un’opera di alta pedagogia, quella che educa al senso della solidarietà con coloro che sono compartecipi dei medesimi destini sociali e nazionali. Della figura del Tenno vorrei dire in altra occasione, se mi verrà concesso il privilegio di incontrare ancora un così distinto uditorio.

Ora concluderò, riassumendo, il concetto di Patria tradizionale del popolo giapponese: il paese in cui vive glielo ha messo proprio nel centro del cuore, dei pensieri, dei sentimenti, una volontà superiore. In questa terra, nei momenti lieti come nel pieno della bufera e della tragedia, il popolo del Sol Levante vede la propria casa, il focolare. Non potrebbe dimenticarla, tanto meno disprezzarla: più che di lesa patria, sarebbe un delitto di lesa natura. (Rielaborazione di Conferenza tenuta dal Dr. Cav. Franco Bigatti, Direttore del Centro Studi Orientali di Savona, presso la sede dell’Alleanza Monarchica in Torino).

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